dott. Alessandro Di Grazia
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venerdì 2 luglio 2010

La consulenza filosofica

Alcuni aspetti essenziali della filosofia pratica

Utilizzando la parola consulenza il nostro pensiero va immediatamente alle diverse pratiche e saperi centrate sulla relazione d’aiuto rivolta tanto al singolo quanto alle istituzioni o a gruppi di lavoro.
In questi ultimi decenni abbiamo assistito al sorgere tumultuoso delle più diverse pratiche, specie in ambito psicologico. Si pensi che negli USA vi sono più di 200 diverse scuole di psicoterapia, per non contare poi i vari indirizzi di counselling, le strategie di problem solving e molto altro ancora. Non dimentichiamo ovviamente la psicoanalisi articolata nelle diverse scuole e tradizioni.
Tutto ciò rappresenta un tentativo di dare delle risposte alla complessità della realtà in cui viviamo, sia a livello intersoggettivo che negli ambienti di lavoro e in generale ovunque si tratti della relazione con gli altri. Spesso si tratta, specie negli ambiti professionali, di condotte di potere, regimi discorsivi di esclusione più o meno volontaria e poi consuetudini di pensiero, convinzioni e credenze che surdeterminano il nostro modo di stare al mondo e che a volte sono fonte di disagio se non di vera e propria sofferenza.
La nostra società “post” è caratterizzata da una sempre maggiore impoverimento dell’aspetto privato della vita. Questo fatto richiama appunto la necessità di sviluppare nuove strategie per affrontare problemi che molte volte alle persone appaiono troppo complessi. Il ricorso ad un “professionista” delle relazioni aumenta così di pari passo con l’aumento della complessità della vita.


Una precisazione linguistica e storica.

La Consulenza Filosofica nasce ufficialmente in Germania nel 1981 con l’apertura da parte del filosofo Gerd Achenbach del primo studio di Philosophisce Praxis. La parola “Praxis” è stata resa in italiano col termine “Consulenza”. Il termine tedesco però non indica nulla di simile. E’ bene fare questa precisazione perché uno dei tratti che distingue la consulenza filosofica rispetto alla galassia delle pratiche legate alla psicologia, è che non vuole dare dei consigli ai suoi clienti o “ospiti” – così chiama Achenbach chi si rivolge alla Philosophisce Praxis -, ma centra la sua attività sul domandare, sul tentare di porre le giuste domande a chi gli sta di fronte.
“Dare consigli” vuole dire mettersi nell’ottica di risolvere un problema, di mettersi quindi in una relazione d’aiuto diretta, relazione che spesso si configura come terapia. E’ una tendenza generale e profondamente radicata nella nostra attuale cultura, quella di trasformare il disagio, anche profondo, in una malattia. Sottrarre la sofferenza alle categorie della patologia rimane uno degli aspetti più importanti di un pensiero pratico e di una pratica del pensiero che assume anche l'aspetto politico, nel senso alto del termine, di restituire il cittadino alla polis, alla comunità delimitando la possibile sovrapposizione tra esistenza e “trattamento sanitario”.

La Cura

Con la filosofia si tratta di pensare e domandare e non di una terapia psicologica per risolvere o eliminare un problema. La nozione stessa di cura va ripresa, dopo Heidegger e Wittgenstein, come cura nel senso di un atteggiamento di amore per la finitezza dell’esistenza che si esprime in un far proprio anche il tema della morte e del dolore e nel senso di un’attenzione etica al linguaggio. Si tratta di pensare in modo “professionale” la nostra esistenza. Questa professionalità non è qualcosa di metodico, ma si realizza nell’impegno che il filosofo e il suo ospite si prendono di andare a fondo di alcune questioni tentando di pensare in modo adeguato ciò che fino a quel momento è rimasto celato sotto le ovvie retoriche quotidiane.
Certo anche in questo percorso si sviluppa qualcosa come una relazione d’aiuto, ma essa è per così dire indiretta poiché chiarendo quali siano le domande importanti, sollecita l’ospite a prendersi cura di sè.
Ma cosa significa “prendersi cura di sé”?
Dare una risposta adeguata a questa domanda è la scommessa della pratica filosofica. La posta su cui puntare è il concetto di soggettività. A partire dalla lezione della fenomenologia inaugurata da Husserl, l’idea di una soggettività chiusa ed autosufficiente è andata via via sfaldandosi. L’intimità del proprio interno appare sempre più popolata da “altro” rispetto a quanto tradizionalmente siamo propensi a considerare “più nostro”, cioè noi stessi.
Prendersi cura di sé assume dunque una dimensione intersoggettiva e pubblica costituita dalle storie che hanno prodotto la nostra storia, fatta di esperienze, sentimenti, emozioni e idee.
Le nostre visioni della realtà, le nostre credenze e le idee che diamo per scontate sono il sedimento ultimo di questa nostra storia che allo stesso tempo è la storia degli altri.
La filosofia pratica prende avvio dalla chiarificazione di questo sedimento che lungi dall’essere un reperto archeologico da museo, è ciò che costituisce la nostra identità di fronte al mondo e che continuamente ci orienta nelle nostre scelte e nelle nostre convinzioni.
Socrate conduceva i suoi dialoghi in pubblico sul filo dell’ironia e della provocazione. Egli si prefiggeva di far partorire all’interlocutore una verità che non soltanto non sapeva di avere in grembo, ma che nemmeno lui, Socrate, conosceva prima di intrattenersi nel dialogo stesso. Una verità che è si universale (piuttosto razionalistica a quel tempo!) ma che emerge nel farsi della relazione.
Questa verità quindi non è posta a priori (come nella dogmatica), ma viene piuttosto ad emergere a posteriori, si fa facendosi!
La consulenza riuscita ha quindi la freschezza della scoperta sia per il consulente che per il consultante, per l’ospite.
Si tratta anche di un esercizio in cui si impara a fare a meno dell’interpretazione. Quest’ultima si sviluppa necessariamente da un ipotesi di partenza che assume la durezza di uno schema di riferimento ed infine di una teoria esplicativa.
Per dirla con Heidegger è necessario operare un superamento, uno spostamento essenziale che, dalla tradizionale domanda di stampo metafisico “Che cos’è l’uomo?”, ci permetta di formulare la domanda “Chi è l’uomo?”
In questa prospettiva non siamo di fronte ad un oggetto (ad esempio delle scienze calcolanti o della psicologia), bensì ad un soggetto in carne ed ossa su cui non sappiamo di più di quanto sappia lui stesso.
La sua verità emerge, se emerge, dalla relazione e non è un dato che verifica una teoria.
Il singolo, allo stesso modo di un gruppo di lavoro o una situazione, vanno interrogati con lo stesso spirito e la stessa responsabilità con cui interroghiamo noi stessi.
E’ dal soggetto che abbiamo di fronte che ci vengono le risposte a ciò che noi formuliamo come una domanda; non è certo il filosofo che dà delle risposte a delle domande che l’altro invece non pone.
La praticità della filosofia non sta nel cercare delle cause, ma nel lavorare con gli stili discorsivi e di pensiero.

Gli strumenti della filosofia pratica

Se fosse possibile identificare un metodo della consulenza, si potrebbe dire che esso ha a che fare anche, ma non solo, con un approccio inizialmente decostruttivo.
Il campo privilegiato di intervento diviene così quello discorsivo-concettuale in cui individuare e decostruire le retoriche bloccate del discorso, i punti in cui esso procede automaticamente, dove quindi la funzione critica del soggetto sorvola evitando di fatto un nodo problematico. Il cuore del lavoro sta quindi nel percorso di scoperta dell’immagine che si ha di se stessi e del mondo, immagini a cui siamo ancorati e da cui siamo sostenuti nella nostra identità.
La filosofia aiuta a circoscrivere il perimetro di questa identità sì vissuta ma soltanto parzialmente pensata.
Non si tratta quindi prioritariamente di analizzare cosa e come sentiamo, ma di mettere in luce il complesso di idee che, non viste ci determinano, molto spesso nostro malgrado, fino nella sfera dell’agire e della relazione col mondo.
La radice di molti malesseri sta in questo percorso interrotto tra ciò che possiamo o vogliamo pensare e ciò che realmente realizziamo nell’azione relativamente a quel pensare.
Non si tratta quindi di scavare in un inconscio che, ribellandosi alla protervia di una debole razionalità, rivendica i suoi diritti, ma di mettere in luce la difficoltà di pensare e soprattutto di dire e raccontare ciò che realmente facciamo e desideriamo.

L’atteggiamento filosofico tradizionalmente si costituisce in una presa di distanza dalla cosiddetta vita concreta, ma invece di una pericolosa e sempre possibile fuga del pensiero nel proprio mondo di concetti astratti e teoretici, attività utilissima nella sua giusta sede, la direzione della consulenza prende avvio da problemi concreti, diventando così, nella vita appunto, un’occasione per gettare un ponte tra il pensare e l’agire e per riflettere sul rapporto vivente tra i nostri saperi e le nostre pratiche.
In definitiva è questo rapporto che ci definisce come uomini e riflettere organicamente su di esso significa prendere quella distanza necessaria per mettere in moto un’interrogazione sul proprio sé e sulla propria identità.

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